Tutti morti. Quelli che hanno vissuto in questa casa sono tutti morti.
Me ne rendo conto all’improvviso. Io sono venuto a svuotare casa di nonna, ma tirando giù ricordi, oggetti e lettere realizzo con violenza che questa casa non è stata solo sua. Per tanti, troppi anni, ci ha vissuto solo lei. Ma non sempre. Prima, con lei, c’erano altre persone, che adesso non ci sono più. Sono morti.
Il maresciallo dell’aereonautica, mio nonno, che non ho mai conosciuto.
Poi mia mamma. Poi mio zio. E infine mia nonna.
In questa casa sono venuti ad abitare più di quaranta anni fa, sono stati famiglia qui. Forse, quella che ci ha vissuto meno è stata mamma, che si è sposata dopo poco che si erano trasferiti qui.
E oggi io rovisto tra le loro memorie, tra le memorie di chi non c’è più.
In cerca di un documento che potrebbe semplificarmi le cose, tiro giù tutto ciò che c’è in casa, che tanto va liberata, è già stata venduta, anni fa, in nuda proprietà, per coprire debiti di altri.
La sventro di ogni oggetto e di ogni carta, cerco di guardare le cose e i documenti con animo cinico e pratico, ma non ci riesco, mi arrendo.
Mi imbatto nelle vite di quattro persone, nelle loro vite fino a che hanno vissuto qui, ed è un viaggio malinconico e doloroso.
Vedo le foto della campagna di Russia di mio nonno, il certificato di medaglia d’argento al valor militare, una causa che gli hanno intentato nel 1970, le sue cartelle cliniche, il ricovero per epatite nel 1977, le analisi e gli altri ricoveri, il certificato di morte, la busta di carta straripante di telegrammi di condoglianze.
La richiesta di pensione di nonna, le risposte del ministero con una forma e un rispetto che non so se si usano ancora, i foglietti cattolici sulla vedovanza, i santini, mio dio quanti santini, nonna li metteva ovunque, nei libri, nelle bollette, nelle lettere.
Le bollette, raggruppate in mucchietti e stipate ovunque: nei cassetti dello studio, in cucina, nei cassetti della biancheria in camera da letto. Ma non è stato sempre così: aprendo i faldoni nello studio mi accorgo che più o meno fino a che nonno è stato in vita, le bollette e le carte erano in ordine, raggruppate e catalogate.
Devo aver preso da lui. Se fosse stato in vita, magari gli avrei fatto vedere anche come poteva scannerizzarle.
Nonna invece lasciava tutto dappertutto, ma ci metteva un suo tocco: prendeva un po’ di carte, non necessariamente attinenti tra di loro, e le infilava in una bustina di plastica tipo quelle degli alimenti, e poi le metteva da qualche parte. Era piena di queste bustine di plastica che contenevano buste di carta che contenevano bollette. Su alcune cose, però, metteva un tocco personale: scriveva un appunto su ciò che quella carta significava per lei. Allora sulla lettera che ufficializzava una sua carica all’interno della chiesa, un foglio spillato recava un suo messaggio “Confermata per il terzo anno. Grazie!”
Oppure rispondeva ai biglietti di auguri sul biglietto stesso che aveva ricevuto: ne ho trovato uno, scritto da zio per il suo compleanno, in cui lei sull’altra pagina aveva scritto “Grazie per gli auguri e anche per il profumo”
Poi i biglietti d’amore e d’auguri tra lei e il nonno. Oppure sulle bollette, sulla busta esterna, una scritta minacciosa: “Francesco leggi”. A me dedicava queste cose un po’ più pratiche, anche se poi nascosto in un cassetto ho trovato il mio primo biglietto da visita, fatto dalla prima azienda in cui ho lavorato, che le avevo regalato e che lei aveva conservato gelosamente come tutto il resto.
Metteva protezioni di plastica sui libri, sulla parte superiore, esposta, in modo che la polvere non andasse direttamente sulla carta. Spargeva occhiali, santini ditali e ferri per la maglia ovunque. Li ho trovati letteralmente ovunque. E non buttava nulla, mai. E quando dico nulla, intendo che ho trovato persino un pezzo di dentiera in un cassetto. Nonna, hai esagerato.
Continuo a rovistare e trovo riviste di uncinetto, centinaia di pubblicazioni ecclesiali, biglietti di auguri, lettere. La lettera di mio zio ai suoi genitori, scritta nel giorno dell’arrivo all’aereoporto di Trapani per l’inizio del suo anno di militare. Le lettere di mio zio, quelle che ha ricevuto mentre era lì. Il suo diario e le sue innumerevoli donne. I quaderni della scuola e dell’università, le sue pagelle, le sue fotografie in primo piano a distanza di qualche anno l’una dall’altra, le foto del suo primo, dannato matrimonio, e quelle del suo secondo, che abbiamo organizzato assieme. Le lettere di un suo amico scansafatiche, che però lo pensava e gli scriveva.
La statua di Napoleone che lui e mamma si litigavano su chi l’avrebbe avuta alla morte di nonna, e invece nessuno dei due ha potuto goderla.
La lettera di mia mamma a nonna, partita qualche giorno per andare non so bene dove, in cui le racconta tra le altre cose di mio papà che le ha comprato un cappello nero, e io capisco che quel cappello è quello che ho conservato nel mio armadio, dopo la sua morte.
Le foto di mia mamma: da piccola, con il nonno, a scuola a Napoli, in prima, seconda, terza elementare, da signorina, da sposa. Guardo la foto da sposa e vedo una ragazzina, mi domando che pensava quando era così giovane.
La guardo negli occhi e vedo gli stessi identici occhi che mi hanno cresciuto, che mi hanno sgridato e abbracciato, festeggiato e fatto forza, quegli occhi che spalancava per far ridere Andrea, durante i due mesi in cui sono stati assieme su questa terra.
Rovisto e tiro fuori, decido cosa tenere e cosa buttare, secondo il mio unico parere. Mi sembra una violenza, nonna non avrebbe buttato quasi niente di ciò che sto buttando io, ma lei non c’è e io devo decidere.
Continuo a rovistare, devo cercare un documento, non so più neanche a cosa mi serve, ma continuo a guardare tra le carte: sono combattuto tra il pudore di leggere corrispondenza di altri e il mio bisogno, il mio forte desiderio: voglio vivere scampoli di vita che hanno vissuto loro, voglio saperne di più di quanto mi sia stato concesso di sapere, perché a loro non posso chiedere più nulla, non posso farmelo raccontare. Mamma e zio sono andati via presto, troppo presto, prima che io fossi abbastanza maturo da poter apprezzare tante cose, prima che potessi capire tante cose.
Raduno i giornali vecchi di 40, 50, 60 anni, li metto da parte, conosco un negozio dove forse li prendono: non mi interessa tirare fuori qualche euro, mi interessa non buttare tutto: voglio che qualcosa di tutto ciò che c’è qui continui a vivere, dia felicità a qualcun altro.
Come la porcellana con i due vecchietti poveri e innamorati, lei che fa l’uncinetto e lui che le porge un fiore, e vicino a loro una scritta “il cuore non invecchia”. Passavo le ore da piccolo a guardarla, affascinato dalle fattezze dei due vecchietti, dalle rughe ricreate con la porcellana, dall’uomo chino verso la sua donna a porgerle il fiore appena raccolto. Ma non volevo prenderla io: ero quasi certo che non avrei trovato la giusta collocazione a casa mia, o forse non avrebbe più avuto lo stesso significato per me, se me la fossi trovata davanti agli occhi tutti i giorni. Ma mi dispiaceva darla via. Ho scoperto che ad Annamaria, la mamma di Serena, piaceva molto, e quando le ho detto che gliela regalavo non ci stava più dalla gioia. Non avrei saputo immaginare un conclusione migliore per quella statuina: dalla famiglia che non ho più, a quella che mi ha accolto come un figlio.
Adesso è tempo di tornare a rovistare tra queste carte, ma non ne ho voglia. Voglio scappare da questa casa e non tornarci più, e cercare di ricordarla com’era prima che tutto questo accadesse, quando venivo qui a dormire con mio fratello, quando facevamo i pranzi con il servizio buono, quando mamma veniva a vedere come stava nonna, quando poi è toccato a me, quando venivo a trovarla con i miei bambini, quando venivo a controllare che facevano le badanti, quando venivo a prendere le cose che potevano servirle in casa di riposo.
Quando mi facevo raccontare le storie del nonno che non ho mai conosciuto, come quella volta che sono andati in viaggio in Austria e nonno si è seduto su una panchina a Vienna e si è messo a piangere, raccontando che su quella panchina si era riposato dopo giorni di cammino di ritorno dalla campagna in Russia.
Forse, per questo pezzo di vita mia, questa volta è davvero la fine.
Bellissima testimonianza di vita. Mi ha molto colpito perché è accaduto un anno fa anche a me di fare la stessa, identica cosa. Con la sola differenza di vedere altri parenti che si “litigavano” (pacificamente, ma la forma non maschera la realtà) le cose e provare una rabbia mista a compassione per i sentimenti umani meno nobili che si manifestano nei momenti più delicati.
Il giorno che mi sono lasciato tutto questo alle spalle è stato un sollievo. Ho conservato anch’io oggetti che durante la mia infanzia erano dei punti di riferimento e, benché qui in casa mia abbiano perso parte di quel fascino, rimangono comunque ricordi tristi e allo stesso tempo felici che sono contento di poter avere sotto gli occhi tutti i giorni.
Le mie più sentite condoglianze, è davvero dura quando alcune porte così importanti di vita si chiudono improvvisamente alle spalle. Non che non ce lo aspettiamo, ma ogni volta ci rendiamo conto di non essere mai preparati. 🙁