La banca dei moduli

Vagavo stordito su una strada larga di città. Una di quelle arterie veloci a quattro corsie, che dalla periferia portano fino in centro urlando e ululando, quando non sono congestionate dal traffico mattutino.
Era mattina, intorno alle 10. Un martedì. Mi trascinavo lento sul marciapiede, guardando intorno a me il paesaggio urbano, noto in qualche angolo della mia memoria, eppure sconosciuto in quel momento. Non riconoscevo una sola strada, un angolo, un negozio, un palazzo. Eppure qualcosa dentro di me mi diceva che ero già stato lì.
La strada urlante era deserta e silenziosa. Un cielo grigio scuro incombeva sui palazzi sgraziati che si ergevano ai lati della strada.
Smarrito, mi guardavo intorno, finché notai un palazzo diverso dagli altri. Era alto due, massimo tre piani, non si riusciva a intendere bene perché la sua forma era irregolare: cubica da una parte, leggermente ovale da un lato, un cilindro che emergeva da un terrazzo e si protendeva sulla destra, a fare ombra sulla strada sottostante. Era un insieme indefinito di forme geometriche tridimensionali: era come se fosse stato costruito da un bambino che gioca con i solidi di legno colorati, e cerca di mettere uno sull’altro un cilindro, un cubo, una piramide, una sfera. Un insieme di cose poggiate senza senso, che stavano su in barba a qualsiasi legge della fisica: orribile e affascinante come solo le cose incomprensibili sanno essere.
Il palazzo era grande, eppure non lo avevo visto mentre mi avvicinavo.
Era come se si fosse materializzato di fronte a me all’improvviso.
Mentre guardavo verso l’alto a cercare di capire tutte le sue forme, sentivo un luce forte premere dietro la spessa coltre grigia che continuava ad opprimere tutto. In giro, nessun altro. Continuai a guardare il palazzo percorrrendo la sua lunghezza, finché mi trovai davanti all’ingresso principale.
Una porta di un paio di metri, in vetro. Accanto ad essa, un ometto fumava una sigaretta e mi guardava. Cercai una targa, un’insegna, qualcosa che mi dicesse cosa ci fosse in quel palazzo, ma non vidi nulla. Sentivo gli occhi dell’ometto fissi su di me. Lo guardai e lo fissai anche io. Restammo così, occhi negli occhi, per qualche secondo, in attesa che accadesse qualcosa. Lui mi guardava asciutto, io ero frastornato e anche un po’ inquieto. Mi feci coraggio e chiesi:
“Scusi, sa dirmi cosa c’è qui dentro?”
Il vecchio increspò le labbra in un sorriso sornione.
“Certo. C’è la PA”, rispose.
“La PA?”
“Sì, ragazzo, la PA”.
“Mi scusi, ma cosa è la PA?”
“La Pubblica Amministrazione.”
“La Pubblica Amministrazione?” chiesi senza essere sicuro di aver capito bene.
“Esatto”, rispose tranquillo il vecchio.
“Ma quale?”, domandai.
“Quale cosa?”
“Quale Pubblica Amministrazione c’è qui? La regione? Il comune?”
“Tutte”, rispose secco.
“Tutte?” domandai.
“Tutte” ripetè il vecchio.
“Ma questo non ha senso” dissi quasi tra me e me, ma il vecchio udì.
“Certo che lo ha”, disse ancora tranquillo.
“Io… non capisco…” balbettai guardandomi intorno senza capire.
“Questa è la sede centrale della PA. Tutto ciò che c’è nella PA origina da qui”, disse il vecchio con l’intento di spiegarmi, ma senza fugare minimamente i miei dubbi.
“Ma che vuol dire?” chiesi alzando la voce. I nervi iniziavano a cedere. Non capivo cosa volesse dire.
“Calmati” intimò tranquillo il vecchio. “Tutto quello che accade nella PA è deciso qui dentro. I ruoli, le regole, i procedimenti, i moduli, i ricorsi, i bolli. Tutto viene determinato e diretto da qui. Per tutte le PA.”
“Ma com’è possibile che un palazzo così strambo e senza neanche una targa fuori sia il centro nevralgico della PA?” chiesi, e mentre terminavo la domanda mi resi conto che la realtà in effetti non poteva essere che quella.
Il vecchio sorrise un po’ più amabilmente, adesso che avevo iniziato a capire.
Sbirciai dalle porte di vetro per cercare di guardare dentro, ma non vidi nient’altro che un banco di accoglienza vuoto.
Il vecchio sbuffò fuori l’ultimo tiro della sigaretta e chiese:
“Vuoi fare un giro?”
Lo guardai.
“Perché, lei lavora qui?”
“Certo.”
“Non sembrava stesse lavorando.”
“Ero in pausa”, rispose tranquillo. Si avvicinò all’ingresso, spinse una delle due porte per metà, poi si voltò verso di me e disse: “Allora, vuoi entrare?”
Feci un cenno affermativo con la testa e lo seguii.
Dentro c’era poca luce. Al banco accettazione non c’era nessuno. Sulla destra un corridoio che si intuiva lunghissimo, con decine di porte su entrambi i lati. A sinistra, un corridoio gemello. Non si vedeva anima viva.
“Ma dove sono tutti?” chiesi.
“In pausa”, rispose.
Attonito mi guardai ancora intorno. Il vecchio iniziò a spiegarmi: nel corridoio di destra c’è la sezione formativa, la scuola della PA.
“Scuola?” chiesi. Non mi risultava ci fosse una scuola della PA.
“Una scuola, certo. Lì vengono formati gli impiegati. Gli viene insegnato tutto ciò che sanno. Il corso da impiegati di primo livello dura un giorno. Hai notato che tutti gli impiegati giovani sono solerti e volenterosi?” chiese.
“Sì…” balbettai interdetto.
“È perché sono inesperti. Il corso di primo livello insegna solo i rudimenti: come farsi timbrare il cartellino da un collega, come riconoscere il momento di maggior affluenza in un ufficio pubblico per chiudere uno sportello, cose così. Ma poi ogni due anni vengono fatti dei corsi di aggiornamento, e piano piano l’impiegato impara ad essere sgarbato, a ciancicare rumorosamente e sguaiatamente la gomma da masticare in faccia a un cittadino. Ci sono anche corsi di specializzazione dialettali, per rispondere ai cittadini nella maniera più consona. La mia insegnante preferita è Tamara, romana, che insegna un “aho, anvedi questa che pretende!” verace, come quello delle fruttivendole di Campo de’ Fiori dell’inizio del Novecento.”
Lo ascoltavo sbalordito. Lui proseguì:
“Però lì ancora non sono così bravi. Nei corsi successivi diventano dei veri esperti: imparano a perdere una pratica, a non ritrovare una pratica (che non è la stessa cosa, eh!), a fare la spesa durante l’orario di lavoro, a giocare al solitario dopo le normali otto ore lavorative per incassare gli straordinari. I più meritevoli, poi, fanno i corsi da dirigenti. Tecniche di negoziazione, appalto e subappalto, tangente 1 e 2, e così via. Fino al corso supremo, a cui possono aspirare solo in qualche decina: quello per ricoprire dieci, dodici, venti cariche contemporaneamente in diverse PA.”
Snocciolava tutte queste informazioni con orgoglio, mentre io lo ascoltavo frastornato, troppo sbalordito per mostrare il minimo segno di protesta.
“Ma lei… insegna qui?” chiesi.
“No, io lavoro già, nel caveau.”
“Caveau?”
“Sì, lo chiamiamo così. È la banca dei moduli”
“Banca dei moduli?”, chiesi. Non capivo.
“Vieni con me”, disse, e si avviò verso un ascensore.
Lo chiamò. Attendemmo. L’ascensore arrivò cigolante, entrammo. Dentro c’era un solo neon funzionante e una puzza di fumo stantio. Premette il pulsante -2.
Le porte si chiusero lentamente e rumorosamente, poi iniziammo la discesa.
Quando la porta si aprì, ci trovammo direttamente all’interno di una stanza, grande circa cinque metri per cinque. Un lampada pendente dal soffitto ronzava e illuminava con una luce fredda un scrivania solitaria grigia, posizionata al centro della stanza.
Sulla scrivania qualche timbro, una penna, una decina di faldoni di carta. Dietro la scrivania, una porta grigia, con un vetro smerigliato stretto e lungo e una maniglia di metallo.
“Benvenuto nel caveau!” disse arzillo il vecchio.
“Ma cosa…” iniziai a dire, ma non riuscii a proseguire.
L’uomo mi fece strada e si avvicinò alla porta alle spalle della scrivania: girò la chiave che era già nella toppa, diede una leggera spallata alla porta e l’aprì.
Davanti a noi si spalancò uno spazio che poteva essere grande come dieci capannoni industriali, pieno di scaffali.
Mi domandai per quanti metri sotto terra si estendesse quel luogo, mi sembrava potesse arrivare da una parte all’altra della città.
Decine, centinaia, forse migliaia di scaffali, come quelli che si trovano nelle biblioteche. Mossi timidamente qualche passo verso uno degli scaffali più vicini, per vedere cosa contenessero. Non c’erano libri, erano fogli di carta sciolti, pieni di righe, o di caselle, erano… erano…
“Moduli!” esclamò l’uomo. “Qui vengono conservati i mastri originali di tutti i moduli della PA!”
Mi guardai intorno e cominciai a leggere ad alta voce le etichette affisse sugli scaffali, una sotto ogni modulo: “Domanda di invalidità militare. Domanda di invalidità civile. Richiesta di emissione partita IVA. Iscrizione alla camera di commercio. Duplicato del codice fiscale. Dichiarazione dello stato di rifugiato. Richiesta di ricovero in struttura ospedaliera.”
Ero attonito. Mi guardavo intorno e vedevo ovunque moduli e targhette. Mi girava la testa. Quante volte avevo visto quei moduli! Certo, magari non esattamente ognuno di quelli, ma alla fine si somigliavano un po’ tutti…
“Cosa?” sentii dire al vecchio con voce adirata “Si somigliano un po’ tutti?”
Lo guardai incredulo. Avevo pronunciato i miei pensieri ad alta voce? O mi aveva letto nel pensiero? Quel posto era talmente assurdo che non mi sarei stupito di nulla.
“Ma come fai a dire che si somigliano un po’ tutti? Dietro ciascuno di questi moduli c’è uno studio approfondito, ore e ore di lavoro, di progettazione. Ogni modulo viene accuratamente studiato e verificato, passa attraverso un lungo processo di pre-approvazione e poi viene sottoposto a una verifica d’uso con dei cittadini comuni, e solo dopo che questa verifica è passata allora il modulo viene mandato ai piani alti per essere approvato e poi vidimato, pubblicato e infine emesso.
E il risultato è questo, quello che vedi qui, davanti ai tuoi occhi. Così come la Zecca dello Stato conserva le matrici del denaro, noi conserviamo le matrici dei moduli. Intonse, immacolate, perfette. Hai mai visto un modulo così perfetto?” chiese, e mi indicò il modello per la richiesta di licenza regionale per la raccolta dei funghi.
Lo guardai.
La carta era bianco latte, splendente, quasi fosse illuminata dall’interno. Le lettere erano perfette, una stampa in altissima definizione, senza il minimo segno di sbavatura, senza la minima imperfezione. Il trionfo della leggibilità.
“Ma… no, io non ho mai visto un modulo così…” dissi titubante.
“Certo che non lo hai visto. Nessuno ha mai visto come sono i moduli in origine. Quando li mandiamo alle PA non mandiamo mai l’originale, ma una fotocopia in bassa risoluzione, che di solito cerchiamo di fare storta di circa mezzo grado”
“Storta?”
“Sì, storta, insomma, facciamo in modo che le scritte fotocopiate siano inclinate di circa mezzo grado. Quel tanto che all’occhio fa percepire che pare ci sia qualcosa di strano, ma non è così evidente da prestarci tanta attenzione.
E quindi quando la PA riceve il nostro modulo e fa le proprie copie, non ci bada tanto. Tanto più che mezzo grado di inclinazione è proprio l’errore medio che viene insegnato agli impiegati nella scuola che hai visto sopra. È una delle cose che imparano subito, gli entra dentro e diventa parte della loro quotidianità, la fanno senza neanche accorgersene, come quando premi la frizione mentre guidi. Una volta che hai imparato lo fai automaticamente, mica ci pensi, no?
E loro automaticamente mettono un errore di mezzo grado di inclinazione ogni volta che fanno una fotocopia. E poi non partono mai dalla copia che gli mandiamo noi, ma sempre da una copia già fatta da loro, quindi alla decima “fotocopia di fotocopia” ti trovi già con un bel modulo inclinato di 5 gradi.
In più la fotocopia di fotocopia ovviamente sbiadisce i caratteri, che da puri e netti come li vedi adesso diventano delle macchie di inchiostro o dei puntini tipo stampante ad aghi difettosa, incomprensibile.”
Ascoltavo il suo racconto ad occhi sbarrati, quando chiesi:
“Ma scusi, non sarebbe più semplice spedire il file originale a ogni PA in modo che poi loro stampino a partire da quello? Non ci sarebbero inclinazioni e le scritte si leggerebbero senza fatica” chiesi tutto d’un fiato.
“Forse sì, ma così sarebbe molto più facile falsificare i moduli”, rispose il vecchio con l’aria di chi la sa lunga.
“Falsificare i moduli?”
“Certo, se ognuno sapesse come sono fatti in origine, potrebbe cercare di crearne uno perfetto come quello originale e usarlo per i suoi scopi”.
Faticavo a capire. Provai ad obiettare:
“Ma scusi, è molto più semplice falsificare un fogliaccio fotocopiato decine di volte, storto, con delle scritte non intelleggibili, che non un foglio immacolato e perfetto. E poi mi ha detto che chi riceve i moduli non vede mai gli originali, quindi non è in grado di capire se quello che ha davanti è un falso. Tutto quello che dice non ha senso”
Il vecchio spalancò gli occhi e vidi un lampo di paura attraversargli le pupille. Fece per obiettare ma poi si limitò a dire: “È così che funziona”. Dove avevo già sentito questa risposta?
Decisi di lasciar perdere e tornai a guardare i moduli. Vidi che su ogni targhetta, accanto al nome del modulo, c’era un numero, una sorta di matricola. Chiesi cosa fosse.
“È il proprotocollo”, rispose.
“Il protocollo, vorrà dire”, tentai di correggerlo.
“No, è il proprotocollo. È il numero di protocollo dei protocolli. Il proprotocollo” rispose sicuro, poi proseguì “identifica univocamente ogni singolo modulo e ogni singola versione esistente”
“Davvero?” chiesi sbalordito.
“Sicuro.”
Eppure io questi numeri non li avevo mai visti sui moduli PA che avevo compilato nella mia vita.
Davanti a me avevo il modulo per la richiesta di patente nautica entro le 15 miglia. La targhetta riportava la matricola “LIC3287/N/ENT”. Sbirciai sul foglio, in cerca del medesimo riferimento, ma non lo trovai. Feci lo stesso tentativo con qualche altro modulo, ma senza fortuna. Mi decisi a chiedere:
“Ma scusi, perché i proprotocolli non sono riportati sui moduli corrispondenti?”
Il vecchio spalancò la bocca in un sorriso.
“Una geniale intuizione del nostro fondatore e primo Presidente, l’emerito Cavaliere del Lavoro Alfonso Squartapasma.”
“Non riesco a capire la genialità della scelta”, risposi io.
“Ma su, ragazzo mio, pensaci un momento! Prova a figurarti una persona che deve chiedere informazioni su un modulo!”
E così provai a immaginarmi la scena.

Immaginai una signora che deve compilare il modulo per il rinnovo dei permessi straordinari del lavoro per handicap, indecisa su cosa rispondere a una domanda, che chiama il call center dell’ente preposto:
“BuongiornoINPSsonoMarianna” risponde l’impiegata tutto d’un fiato.
“Buongiorno Marianna, devo compilare la Domanda annuale di permessi ma ho un du…”
“Quale?” chiede sbrigativa Marianna.
“Come quale? Perché, ce n’è più di una?”
“Certo signora, c’è quella per i permessi dal lavoro dipendente, quelli per la pubblica amministrazione, quella per le regioni a statuto speciale, poi dipende se lei hai già fatto domanda oppure no, perché se è un rinnovo allora è diverso. Il suo è un rinnovo?”
“Sì!” risponde la signora dall’altra parte, frastornata dall’esistenza di tutte quelle varianti, e contenta di poter rispondere positivamente ad una domanda che possa aiutare Marianna a darle una mano.
“Sì, è un rinnovo, sono tanti anni che faccio questa pratica, ma questo modulo è diverso dal solito.”
“Sì, signora, perché li hanno cambiati un paio di mesi fa”
“Ah, va bene, allora posso chiederle quello che non ho capito?”
“No signora, io mica ho capito quale modello sta guardando”.
“Ma le ho detto che è un rinnovo”
“Sì, ma la prima volta che ha fatto la domanda di invalidità, quando è stato? Prima o dopo il 2002?”
A quella domanda, molto probabilmente, la signora sa rispondere con prontezza. La prima domanda di invalidità non si scorda mai. Ma ovviamente le insidie non sono finite, perché…
“Era proprio nel 2002.”
“Che mese?”
Già, che mese? Questo era più difficile. La diagnosi defintiva l’aveva avuta nel 2001, a giugno, ma ci aveva messo più di un anno prima di trovare il coraggio di farsi dichiarare invalida, e quindi lo aveva fatto nel 2002. Ma che mese era? Aveva già finito il primo ciclo di terapie? Aveva già iniziato il secondo?
“Mi sembra… mi sembra fosse giugno” risponde la signora titubante.
“Le sembra?”
“Sì, guardi, non ricordo con esattezza, sa, parliamo di più di dieci anni fa…”
“Ah signo’, e se non se lo ricorda lei, che me lo devo ricorda’ io? Faccia uno sforzo, sennò vordi’ che non gliene frega tanto de ’sti permessi…”
La signora, frastornata e umiliata, si sente avvampare e decide di rischiare.
“Era giugno” risponde intontita ma ferma.
“Allora signo’, facciamo che era giugno, allora lei dovrebbe avere il modulo che in alto a destra ha l’indicazione dell’ente che ha emesso…”

“Oh, vedo che te la sei figurata bene la scena!” esclamò il vecchio sorridente.
Lo guardai interrogativo. Avevo raccontato la scena ad alta voce, o mi aveva letto nel pensiero (di nuovo)?
“Allora hai capito adesso?”, chiese.
“Veramente… no”.
“Ragazzo mio, la PA complica le cose apposta. Tu credi che l’ufficio complicazione affari semplici sia una barzelletta per prendere in giro qualche sacca di inefficienza, ma non è così, è tutto studiato fin nei minimi dettagli. Rendere difficile la richiesta di un servizio assistenziale può scoraggiare diverse persone, e in questo modo lo stato può vantarsi di offrire assistenza alle persone in difficoltà riducendo il numero effettivo degli aiuti erogati. Capisci l’astuzia?” chiese furbo, cercando complicità.
Spalancai la bocca senza riuscire a dire nulla.
“Certo, c’è pure da dire che l’esimio Presidente Squartapasma, quando ebbe l’intuizione, era anche presidente della più grande compagnia dei telefoni del Paese” aggiunse il vecchio.
“E quindi?”
“E quindi, in quel periodo si iniziarono a creare i servizi di assistenza ai cittadini via telefono, i call center come quello che ti sei immaginato tu un attimo fa, e c’era da fare i soldi.”
“Ma come, scusi? I call center della PA di solito sono gratuiti” obiettai.
Rise.
“Certo, sono gratuiti per chi chiama. Ma il servizio non è certo a costo zero. E questo costo qualcuno lo sostiene, e qualcun altro lo deve remunerare. Un tot ogni minuto. Più minuti gli utenti passano al telefono, più il servizio costa, più chi fornisce il servizio deve essere remunerato. E così un modulo complicato fa passare un sacco di tempo al telefono al cittadino che ha bisogno di un servizio, ma il modulo è così complicato che spesso il cittadino rinuncia. L’ente in questo modo ha risparmiato i soldi che avrebbe dovuto erogare al cittadino, e con quel risparmio può pagare il servizio telefonico della compagnia dei telefoni che gestisce il call center. Il sistema funziona.”
“Ma…” balbettai ancora una volta “ma… sta dicendo sul serio?”
“Ragazzo mio, ma tu vedi un altro motivo plausibile per cui nel 2014 non possa essere messo un cazzo di numero identificativo su un modulo della PA?” chiese urlando il vecchio, con uno sguardo ora cattivo.
Poi la sua faccia lentamente si trasfigurò, e i suoi occhi increspati dalla rabbia si distesero, la bocca si aprì lentamente, prima in un sorriso, poi in una risata bassa che piano piano salì di intesità, fino a diventare assordante:
“Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! La PA ragazzo! La PA!” urlava il vecchio “Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! Ah! La PA ragazzo! La PA!”
“La PA! La PA! La PA!”
Iniziai a indietreggiare spaventato, poi decisi di voltarmi e iniziare a correre, per cercare la porta da cui ero entrato, ma intorno a me non vedevo altro che scaffali e moduli, scaffali e moduli. Alle mie spalle il vecchio continuava a urlare: “La PA ragazzo! La PA! La PA!”
Corsi a più non posso fino a che non inciampai nei miei stessi piedi, caddi in ginocchio, ero madido di sudore, perso tra gli scaffali, senza sapere dove scappare. Alzai la testa in alto, chiusi gli occhi e gridai con tutta la forza che avevo: “Aaaaaaaaaaaah!”

Mi svegliai e mi sollevai di scatto a sedere sul letto, urlando. Sentii la mia voce che strillava e mi fermai di botto. Ansimavo. Nell’oscurità, davanti ai miei occhi, passavano di nuovo le immagini che avevo appena visto. Il palazzo strambo, il vecchio, i corridoi, i moduli. Piano piano cercai di tornare a un ritmo di respiro regolare. Ci riuscii.
Un sogno, pensai. Era solo un sogno. Un incubo. L’incubo era finito.
O forse, ora che ero sveglio, l’incubo era appena cominciato.

Questa voce è stata pubblicata in francesco. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *